“Ho aiutato a sollevare una donna dal macchinario insanguinato che le aveva appena strappato quattro dita di una mano, e sento ancora le sue grida: “Gesù non potrò più lavorare”.
[ Alvin Toffler ]
La testimonianza è agghiacciante ed il post, per l’intensità del messaggio che racchiude, potrebbe tranquillamente terminare qui.
Non riesco però a trattenermi, vorrei poter dire a quella sfortunata operaia che le cose che non potrà più fare oltre a lavorare sono altre, molte altre, più importanti. Molto più importanti.
Quante cose non potrai più fare senza quelle dita?
Vorrei farle capire che l’assurdità delle sue parole è colpa dello stramaledetto sistema sociale che per decenni ha subdolamente sostenuto che “le persone sono il lavoro che fanno”.
Qualche anno fa scrissi “Tu non sei il tuo lavoro” che suscitò uno tzunami di reazioni fra le più contrastanti. Oggi ritengo quella posizione superata e vorrei arrivare “oltre” affermando semplicemente che “No, il lavoro non è tutto”.
Per te lo è?
PS: Certo, esiste il caso Sergio Marchionne, l’uomo che visse per lavorare, ma mi domando se oggi, con il senno di poi, effettuerebbe le stesse scelte di vita???
Vorrei uscire dal coro sostenendo la tesi che per alcuni il lavoro rappresenta quel “tutto” che famiglia, amori, viaggi etc possano rappresentare per altri.
La riflessione è certo apprezzabile, tuttavia è un cane che si morde la coda; difficile avere l’uno senza l’altro.
Ottimo post.. Che non ti aspetti da un hh magari.. Il lavoro è un mezzo.. Lo scopo dovrebbe essere altro nella vita
Signori, io provo un profondo sgomento se rifletto sul significato di quella espressione…. La prima presa di coscienza, per questa signora non è l’aver perso le dita della sua mano…, la prima cosa è il pensiero, la preoccupazione di come affrontare la vita lavorativa, senza più uno strumento che va al di là, della personale necessità di sentirsi sana, a posto… completa. Sembra quasi conscia del solo fatto, che senza le sue dita, non potrà più continuare a lavorare, guadagnare, sostentarsi.
Indicibile la frustrazione che può provare un essere umano, di fronte ad un incidente che tuttavia, come dice il Dottor De Rosa non è un accadimento che possa rilevare ad essere la cosa più importante della vita.
In questo senso, condivido il pensiero, perché è la perdita delle dita ad essere il vero grande problema, tuttavia non si può neppure battere la pacca sulla spalla, della poveretta invitandola a non pensare solo al fatto che non potrà più lavorare.. dopo tutto nessuno di noi può sapere, su chi è come potrà contare nella sua vita per avere sostegno ed aiuto in futuro.
Massimo Rosa grazie per la riflessione.
Viviamo in un’epoca barbara, travestita da civiltà globalizzata e digitalizzata, dove il mero lavoro manuale ha perso buona parte del suo senso inteso rispetto alla concezione tradizionale valida ancora appena 20 anni addietro. Personaggi come Marchionne sono serviti eccome e ne servirebbero, ma ne esistono pochi, sono degli illuminati persone di grande intelligenza, equilibrati, colti e rimasti fedeli alle proprie origini, che non lavoravano 8 ore ma h24. Persone che hanno una visione d’insieme di lungo periodo e per questo capaci di pensare alla collettività passando per i necessari rinnovamenti dove richiesti, imponendo momentanei sacrifici per poi ritornare a rilocalizzare quando il momento lo consente. Purtroppo con le teorie socialiste che qualcuno deve garantire provvedere senza aver capacità di flessibilità e senza cambiare le proprie abitudini siamo finiti così, una società clientelare, raccomandata, corrotta e pigra….tanti non hanno ancora chiaro che il lavoro è l’espressione dell’uomo della propria creatività, la propria realizzazione e se fatto con passione è un piacere. Continuando su questa falsa riga del sacrificio siamo già parzialmente sulla via del non ritorno, la strada si è fatta stretta .
Il lavoro non è tutto ma se non lo hai, sicuramente, hai molti problemi e automaticamente diviene difficile trovarne un lavoro. In Italia chi rimane senza lavoro è quasi un “paria”. Io, per ragioni diverse, ci sono passato. Quando ero senza lavoro ero disposto a ricominciare da qualsiasi posizione lavorativa, ma a tutti i colloqui ero giudicato con molto sospetto. Poi, finalmente, grazie ad una persona di cuore, che mi ha dato fiducia, sono riuscito a ritornare nel mondo del lavoro. Quel periodo è stato molto difficile anche dal punto di vista psicologico. In particolar modo per il fatto che ero, e sono ancora, padre di famiglia ed il mio era l’unico introito. Quindi è facile, per chi il lavoro lo ha dire che “il lavoro non è tutto” è come il ricco che dice che i soldi non fanno la felicità, ma qualcuno mi deve spiegare perché il povero molto difficilmente può dirsi felice!
Sicuramente ci si può accontentare, ma qualcosa lo bisogna avere per potersi accontentare!
Io di persone che non hanno più un lavoro ne incontro tante, quasi ogni giorno. Posso dire che a loro manca la fonte di sostentamento, e questo di per sé è già tragico, ma manca anche, e soprattutto, un pezzo della vita. Senza arrivare al paradosso Machionne, posso dire che queste persone, che nel lavoro hanno investito veramente molto anche a livello personale, si sentono depauperate soprattutto del modo di esprimere se stessi ed è brutto essere costretti a reinventarsi in una pelle che non senti tua
Quante volte ci si ferma a pensare solo il “momento dopo” e non si riesce a cogliere e apprezzare tutto il resto , ma ciò che ancora più disarma me stesso è che la durata della riflessione è lunga quanto un battito di ciglia prima di essere travolti nuovamente da ciò che definisco “ la centrifuga della vita” che attraverso quell’ obló non mostra altro che un angolo molto limitato e offuscato della vita
Penso che la soddisfazione del proprio lavoro dipenda non tanto dal lavoro che si fa ma nasca dal riuscire a esprimere la propria umanita’ e la propria unicità attraverso il lavoro. Perciò condivido il fatto che il lavoro non è tutto ma certo è un modo per esprimere se stessi e dovremmo darci la possibilità di farlo senza ricatti e con amore.
Il lavoro rappresenta la massima espressione dei sacrifici che una persona sostiene durante l’arco della propria vita. La soddisfazione nel lavoro e nella vita extra lavorativa rappresentano, a mio modesto parere, l’essenza di quella che definiamo felicità.
Sicuramente e giustamente il lavoro non può essere tutto, vivere per lavorare è sbagliato. Ma tranne che in rari e fortunati casi si ha bisogno di lavorare per vivere. Certo, se il tuo lavoro ti piace e ti soddisfa tenderai più facilmente ad identificarti con esso. Ma quanti in realtà hanno la fortuna di fare un lavoro che gli piace e lo/la soddisfa?
Ad ogni modo ogni persona ha il suo modo di interpretare il lavoro e di trovare un equilibrio con tutto il resto…
Giustissima osservazione, ma in fondo ritengo che proprio i social e noi tutti che li utilizziamo fomentiamo vicendevolmente la voglia di non accontentarsi e di fare sempre di più! E a volte il lavoro rischia di essere più importante del dovuto. Io credo che non bisogna mai accontentarsi, ma occorre anche saper fissare dei limiti.
Punto di vista estrememente interessante Massimo Rosa anche se , purtroppo, per le persone ecomicamente piu’ fragili il lavoro e’ proprio tutto.
Quando hai tanti interessi e passioni, il lavoro è solo una percentuale della tua esistenza e sarebbe giusto che fosse sempre così. Il lavoro dovrebbe essere un mezzo necessario ma non indispensabile per realizzarsi e realizzare qualcosa. Purtroppo invece il lavoro diventa spesso imprescindibile per comprare una casa, farsi una famiglia, costruirsi un futuro. La mia speranza (o utopia) è che le generazioni future, grazie all automazione e al progresso, possano sempre più emanciparsi dal lavoro cosi come lo viviamo oggi.
È vero.. Non siamo il nostro lavoro, ma se la donna alle quali la macchina ha strappato quattro dita ha dei figli da mantenere, un affitto da pagare e magari è senza un marito/compagno è più che comprensibile che pensi “non potrò più lavorare”.
Oggi, a 35 anni, con un affitto da pagare ed una figlia di 4 anni, se succedesse anche a me una tragedia simile, urlerei le stesse parole.
Per 20 anni per il lavoro e la carriera ho sacrificato tutto. famiglia, affetti, tempo, me stesso. Ancora adesso, il lavoro è importantissimo per me, per la mia coscienza, anche se ho riequilibrato un po’ le cose.
Buonasera Massimo, io credo che dietro a quella frase si nasconda semplicemente la paura di non avere più un reddito..senza soldi non si mangia..
I miei più grandi complimenti per questa sua affermazione. Sono felicissimo di notare che esistono anche altre persone in grado di guardare aldilà della classica modalità di pensiero. Bravo !
Concordo perfettamente, il lavoro non è tutto, anzi!Ma il lavoro è l’opportunità (oggi quasi lusso e privilegio)che abbiamo di esprimere noi stessi, di realizzare la nostra professionalità e capitalizzare gli investimenti ed i sacrifici fatti.
Al di là di questo però il lavoro è anche la necessità,il bisogno di dover guadagnare per sé e per i propri cari.
Non tutti i lavori sono “nobili” nel senso che direttamente o indirettamente hanno un impatto socialmente o eticamente utile, ma nella vita ci sono mille opportunità per esprimere il proprio contributo sociale( penso ai volontari di una associazione o più semplicemente ad una mamma/casalinga che curando i propri cari e crescendo i propri figli contribuisce alla società prendendosi cura della sua più piccola cellula,la famiglia appunto).
Il lavoro è un BISOGNO ma dovrebbe anche essere l’OPPORTUNITA’ di offrire al mondo l’immagine più autentica di ciò che siamo.
La signora infortunata lo sa sicuramente che il lavoro non è tutto ma è importante. La verità è che non si dovrebbe infortunare una persona che va a lavorare. Zero infortuni è possibile basta investirci sopra.
Non credo che la domanda debba essere se il lavoro sia tutto, importante o poco importante. La domanda semmai credo debba essere “mi piace quello che faccio e su cui spendo almeno un terzo delle mie giornate”? Per Maechionne forse si ma, purtroppo, per molti la risposta è no. Alcuni di loro sono responsabili del loro destino lavorativo, altri non hanno avuto scelte come probabilmente la persona da cui trae spunto il post. In entrambe i casi queste persone, con ogni probabilità, si può dire siano asservite ad un processo che distribuisce loro una piccola partedella ricchezza che contribuiscono a creare e che, tuttavia, per loro è spesso vitale. Il sistema oggi è questo, che ci piaccia o no, ma che almeno si garantisca a queste persone luoghi di lavoro sicuri e quanto più confortevoli possibile così che ad un compenso contenuto non corrispondano anche rischi per la salute e un pezzo di vita senza dignità. Le prigioni mentali di cui ognuno di noi è al tempo stesso carceriere e carcerato, hanno radici profonde nella storia personale e nella società in cui si è cresciuti. Per smantellarle serve un livello di consapevolezza a cui non tutti hanno accesso, per esempio tutti coloro che linkedin non sanno nemmeno cosa sia.
È che se non lavora, non mangia; quindi non fa nessuna delle altre cose che in realtà sono la sua vita.
Questo è il vero problema: l’organizzazione sociale, e in particolare quella italiana, impone a tutti di lavorare 350 giorni all’anno per più di otto ore al giorno per poter avere una vita passabile e quindici giorni di ferie appena decenti.
Amplio un po’ il concetto, giusto o sbagliato che sia. Io non sono il mio lavoro, io sono in gran parte quello che faccio per lavoro. Tant’è che per anni sono stato costretto a lavori che non mi piacevano e ne ho sofferto mortalmente dal punto di vista personale. Non dimentico mai comunque che in una vita bilanciata, il lavoro non deve (se non per contingenze limitate) invadere lo spazio vitale per tutto il resto.
È chiaro che in questo caso era probabilmente più la preoccupazione della donna di non poter più portare a casa lo stipendio.
In medio stat virtus è una delle mie frasi preferite perché penso racchiuda una importante verità, applicabile a tutti i contesti. La vita non è monocromatica ed unidirezionale, ma è la somma di una molteplicità di esperienze. Concentrarsi esclusivamente su di un unico ambito, seppur importante, e tralasciare tutto il resto, è per me fortemente invalidante, ti lascia incompleto.
Siccome non si sa mai quando dovremmo lasciare questo mondo, avessi guadagnato quello che ha guadagnato Marchionne io avrei smesso di lavorare 10 anni prima per fare il giro del mondo. A lui però magari di fare il giro del mondo fregava niente e si divertiva lavorando. E conosco tanta gente che una volta raggiunta la pensione, e non da 500 euro, ha continuato a lavorare per anni. Io non li ho mai capiti.
Concordo il lavoro non è tutto….è solo parte integrante della nostra vita, bisogna capire che la vita è altro e imparare a dare il giusto peso al lavoro. Bisogna lavorare per vivere avere la fortuna di fare un lavoro che ci appassiona dare sempre il massimo ….ma soprattutto Vivere! La vita è un dono che si riceve una volta sola….
Buongiorno Dott. Rosa , capisco pienamente il Suo ragionamento ,purtroppo siamo rapiti dal lavoro che occupa molte ore della giornata e anche oltre per chi fa’ lavori di una certa responsabilità .Siamo inglobati da un sistema che ci fagocita per essere sempre più produttivi e efficienti tanto da farci auto convincere di essere quello che facciamo di mestiere. Ringrazio la Mia piccolina nata due mesi fa perché forse mi ha fatto rinsavire un po’ ,tanto da voler correre a casa sempre prima e insegnarmi che prima di essere un commerciale ,un buon dipendente o qualsiasi cosa sarò domani sono un papà! Forse la scommessa per il futuro sarà far si che il lavoro diventi più a misura d’ uomo ………
L’altro giorno spiegavo al mio bambino che se per star bene ti bastano 1000 euro al mese, allora il lavoro finisce non appena li hai raggiunti in modo onesto (onestà di lavoratore e committente), amorevole (idem) e intelligente (idem). Il resto è avidità e inconsapevolezza.
Il lavoro non è sicuramente tutto, specie se lo si ha, ma è sicuramente la base sulla quale costruire una casa, una famiglia, dei figli, una società, come del resto richiamato anche nella nostra Costituzione.
Il futuro non esiste senza il lavoro, o meglio, senza il lavoro non vi è progresso, ne individuale, ne collettivo.
Per certe persone, inoltre, il lavoro, quello ben fatto e che tiene sempre positivamente in tensione, e’ un modo di esprimere la propria personalità, le proprie attitudini, se vogliamo anche un modo di interpretare la vita e la libertà.
In questo credo che Marchionne ne fosse maestro, non gli interessavano i denari, quanto costruire un qualcosa, un qualcosa di grande…e ciò deve essergli costato sacrifici ma anche provocato grandissime soddisfazioni!
credo che quella donna, nel dramma del momento, abbia avuto subito lampante l’impossibilità di lavorare in futuro e quindi essere privata di una fonte di sostentamento per se e la propria famiglia.Ritengo che la sua reazione non abbia avuto a che fare con lo status perso di operaia o altro…
Io lavoro per vivere e non vivo per lavorare. È vero che se fai un lavoro che ti piace, lavori con più passione, ma è anche vero che a lungo andare, se fai della tua passione il tuo lavoro, della passione rimane poco e niente.
La riflessione e’ certamante interessante ma, a mio parere, non tiene conto di un aspetto: ci sono persone che lavorano perche’ il lavoro che fanno e’ un piacere, una soddisfazione, una maniera per realizzarsi. Magari sono poche, ma non credo di essere da solo. Con la morte di MArchionne siamo certamente uno in meno.
Priorità ed equilibrio; la difficoltà forse consiste in questo. In funzione delle priorità che affrontiamo (per scelta o imposte) determiamo il punto di equilibrio; a volte non lo si trova.